Intervista di Motta Rebecca, Pozzato Marta, Ungari Cecilia
Nell'ambito di un progetto scolastico sull'immigrazione, il giorno 19 febbraio 2019 abbiamo intervistato un ragazzo proveniente dal West Africa, più precisamente da un piccolo paese chiamato Malenke. Ha ventisette anni, è laureato in giurisprudenza ed è arrivato in seguito a un lungo viaggio che lo ha portato dalla Guinea fino in Italia. Ora è impiegato come cameriere presso una pasticceria di Muggiò. Il suo nome è Sidiki Makoya Cisse. Inizialmente era timoroso nel confidarsi con tre sconosciute, non volendo rivivere quella che per lui è stata una storia piena di dolore; in seguito, vedendo un nostro reale interesse per quanto riguardava la sua vita attuale e i suoi desideri per il futuro, si è aperto raccontandoci anche eventi spiacevoli del passato.
D: Qual è il significato del tuo nome? Ti ritrovi in esso?
R: Sidiki significa verità e deriva dal nome di un profeta musulmano, trovo che questo nome mi rappresenti molto essendo io una persona che tende sempre a dire il vero e a non tollerare coloro che si nascondono dietro una menzogna.
D: Com’è la tua vita adesso?
R: Attualmente vivo, con altri cinque ragazzi, in un appartamento che ci è stato assegnato dallo Stato. Vivere con altre persone non è per niente facile, soprattutto perché questo significa rinunciare ad una propria libera gestione del tempo, non potendo, per esempio, tornare a casa all’orario che preferisco. Se mi mettessi a guardare la mia vita attuale da questo punto di vista potrei arrivare a dire che in Africa mi sentivo molto più libero. Per ora non mi resta che aspettare che il Comune accetti i miei documenti così che io possa riuscire a comprare una casa da solo arrivando ad essere finalmente indipendente.
D: Quali persone hai incontrato al tuo arrivo in Italia?
R: Quando sono arrivato, tre anni fa, sono stato fortunato nell’incontrare ottime persone che mi hanno aiutato sin da subito senza giudicarmi o avere pregiudizi nei miei confronti. Una persona molto gentile e che mi sento di dovere di ringraziare per il lavoro offertomi è la proprietaria della pasticceria presso la quale lavoro da circa un anno e che mi ha dato la possibilità di riscattarmi e di guadagnarmi un lavoro onesto, per il quale ho dovuto frequqntare delle scuole. Avrei anche potuto evitare di farlo, non proveniendo da una famiglia povera e ricevendo soldi da mia madre, ma ho preferito trovarmi un lavoro che mi desse la possibilità di crescere come persona e, a un anno da questa decisione, posso dire di stare lavorando “per onore e non per soldi”. Lungo il mio percorso ho trovato anche persone che, senza conoscermi, si sono mostrate scettiche e diffidenti nei miei confronti, a causa del colore della mia pelle e della mia provenienza. Una volta, durante un turno di lavoro, una signora che aveva ordinato un caffè, vedendomi dietro il bancone chiese di poter essere servita da qualcun altro.
D: A cosa pensi sia dovuta tutta questa ostilità e paura del diverso nelle persone?
R: A mio parere le persone tendono più a dare importanza ai pregiudizi e agli stereotipi con cui noi migranti veniamo etichettati, che non a provare a conoscerci per come siamo veramente. Inoltre penso che questa ostilità nei nostri confronti sia dovuta ad un’educazione scorretta attraverso la quale passa il messaggio che l’essere diversi debba per forza essere visto come una cosa negativa. Penso anche che tutta questa paura del diverso sia dovuta all’ignoranza e ad una immagine sbagliata che viene dipinta attorno a noi e al fenomeno della migrazione. È pur vero che i fatti di cronaca a volte danno ragione a queste persone, poiché non tutti abbiamo motivazioni serie che ci spingono a scappare e ad arrivare in Italia. Penso comunque non si debba generalizzare, né noi nei vostri confronti, né voi nei nostri.
D: Entrando in vicende più personali, cosa ti ha spinto a lasciare il tuo paese?
R: Mi sono sentito costretto ad abbandonare il mio paese per salvaguardare la mia vita. Prima della mia nascita i miei genitori vivevano in due villaggi diversi: mia madre proveniva dal villaggio di Malenke ed era di religione cristiana, mentre mio padre abitava a Konike ed era originario di una famiglia molto legata al culto islamico. Quando mio padre annunciò che si sarebbero sposati, la sua famiglia si oppose, ma, nonostante la loro opinione, mio padre decise ugualmente di sposarla. Inoltre, a causa della ricchezza derivata dal suo lavoro come avvocato, i fratelli poveri e con molte mogli iniziarono ad essere invidiosi di lui. Per questo motivo mio padre sospettava che di lì a poco i suoi fratelli avrebbero cercato di ucciderlo, così scrisse un testamento nel quale lasciava tutti i suoi beni e i suoi possedimenti a me e mia madre. Una volta riusciti ad ucciderlo, i suoi fratelli tentarono di fare lo stesso anche con me e fu per questo motivo che una notte decisi di partire.
D: Hai mai avuto paura nell’affrontare questo cambiamento da solo?
R: Si, mi è capitato molte volte di aver avuto paura per la mia vita e per quella di mia madre, temendo ogni giorno un possibile attacco da parte dei miei familiari. È questo che, nel 2016, mi ha spinto ad intraprendere un viaggio dalla Guinea a Mali in aereo e poi a raggiungere le coste dell'Italia, dove, in seguito, sono riuscito ad avere lo status di rifugiato politico. La stessa cosa fece anche mia madre che dovette allontanarsi dal suo villaggio di origine trasferendosi in un’altra zona dell’Africa, più sicura per lei. Ricordo la prima sensazione che ho provato appena sbarcato in Italia, a Crotone: provai immediatamente un senso di libertà e di lontananza dal pericolo che mi diede la possibilità di riflettere su quanto fossi stato fortunato, fu subito dopo questo che mi sentii in dovere di chiamare mia madre per dirle che ce l’avevo fatta.
D: Hai qualche desiderio per i prossimi anni?
R: Certamente, ho molti desideri che vorrei realizzare: tra questi poter in breve tempo ottenere una mia autonomia, esercitare la professione di avvocato, seguendo le orme di mio padre, come lui avrebbe voluto, e soprattutto riuscire a creare un nucleo familiare solido perché “La famiglia è il senso ultimo della vita”.
Questa foto è stata scattata poco prima che ci salutassimo, con la richiesta di Sidiki di fargli compagnia mentre mangiava e di tornare a trovarlo. Durante questa intervista, abbiamo abbattuto tutti le nostre barriere, perché solo nel confronto si può davvero rispettare il genere umano.
D: Qual è il significato del tuo nome? Ti ritrovi in esso?
R: Sidiki significa verità e deriva dal nome di un profeta musulmano, trovo che questo nome mi rappresenti molto essendo io una persona che tende sempre a dire il vero e a non tollerare coloro che si nascondono dietro una menzogna.
D: Com’è la tua vita adesso?
R: Attualmente vivo, con altri cinque ragazzi, in un appartamento che ci è stato assegnato dallo Stato. Vivere con altre persone non è per niente facile, soprattutto perché questo significa rinunciare ad una propria libera gestione del tempo, non potendo, per esempio, tornare a casa all’orario che preferisco. Se mi mettessi a guardare la mia vita attuale da questo punto di vista potrei arrivare a dire che in Africa mi sentivo molto più libero. Per ora non mi resta che aspettare che il Comune accetti i miei documenti così che io possa riuscire a comprare una casa da solo arrivando ad essere finalmente indipendente.
D: Quali persone hai incontrato al tuo arrivo in Italia?
R: Quando sono arrivato, tre anni fa, sono stato fortunato nell’incontrare ottime persone che mi hanno aiutato sin da subito senza giudicarmi o avere pregiudizi nei miei confronti. Una persona molto gentile e che mi sento di dovere di ringraziare per il lavoro offertomi è la proprietaria della pasticceria presso la quale lavoro da circa un anno e che mi ha dato la possibilità di riscattarmi e di guadagnarmi un lavoro onesto, per il quale ho dovuto frequqntare delle scuole. Avrei anche potuto evitare di farlo, non proveniendo da una famiglia povera e ricevendo soldi da mia madre, ma ho preferito trovarmi un lavoro che mi desse la possibilità di crescere come persona e, a un anno da questa decisione, posso dire di stare lavorando “per onore e non per soldi”. Lungo il mio percorso ho trovato anche persone che, senza conoscermi, si sono mostrate scettiche e diffidenti nei miei confronti, a causa del colore della mia pelle e della mia provenienza. Una volta, durante un turno di lavoro, una signora che aveva ordinato un caffè, vedendomi dietro il bancone chiese di poter essere servita da qualcun altro.
D: A cosa pensi sia dovuta tutta questa ostilità e paura del diverso nelle persone?
R: A mio parere le persone tendono più a dare importanza ai pregiudizi e agli stereotipi con cui noi migranti veniamo etichettati, che non a provare a conoscerci per come siamo veramente. Inoltre penso che questa ostilità nei nostri confronti sia dovuta ad un’educazione scorretta attraverso la quale passa il messaggio che l’essere diversi debba per forza essere visto come una cosa negativa. Penso anche che tutta questa paura del diverso sia dovuta all’ignoranza e ad una immagine sbagliata che viene dipinta attorno a noi e al fenomeno della migrazione. È pur vero che i fatti di cronaca a volte danno ragione a queste persone, poiché non tutti abbiamo motivazioni serie che ci spingono a scappare e ad arrivare in Italia. Penso comunque non si debba generalizzare, né noi nei vostri confronti, né voi nei nostri.
D: Entrando in vicende più personali, cosa ti ha spinto a lasciare il tuo paese?
R: Mi sono sentito costretto ad abbandonare il mio paese per salvaguardare la mia vita. Prima della mia nascita i miei genitori vivevano in due villaggi diversi: mia madre proveniva dal villaggio di Malenke ed era di religione cristiana, mentre mio padre abitava a Konike ed era originario di una famiglia molto legata al culto islamico. Quando mio padre annunciò che si sarebbero sposati, la sua famiglia si oppose, ma, nonostante la loro opinione, mio padre decise ugualmente di sposarla. Inoltre, a causa della ricchezza derivata dal suo lavoro come avvocato, i fratelli poveri e con molte mogli iniziarono ad essere invidiosi di lui. Per questo motivo mio padre sospettava che di lì a poco i suoi fratelli avrebbero cercato di ucciderlo, così scrisse un testamento nel quale lasciava tutti i suoi beni e i suoi possedimenti a me e mia madre. Una volta riusciti ad ucciderlo, i suoi fratelli tentarono di fare lo stesso anche con me e fu per questo motivo che una notte decisi di partire.
D: Hai mai avuto paura nell’affrontare questo cambiamento da solo?
R: Si, mi è capitato molte volte di aver avuto paura per la mia vita e per quella di mia madre, temendo ogni giorno un possibile attacco da parte dei miei familiari. È questo che, nel 2016, mi ha spinto ad intraprendere un viaggio dalla Guinea a Mali in aereo e poi a raggiungere le coste dell'Italia, dove, in seguito, sono riuscito ad avere lo status di rifugiato politico. La stessa cosa fece anche mia madre che dovette allontanarsi dal suo villaggio di origine trasferendosi in un’altra zona dell’Africa, più sicura per lei. Ricordo la prima sensazione che ho provato appena sbarcato in Italia, a Crotone: provai immediatamente un senso di libertà e di lontananza dal pericolo che mi diede la possibilità di riflettere su quanto fossi stato fortunato, fu subito dopo questo che mi sentii in dovere di chiamare mia madre per dirle che ce l’avevo fatta.
D: Hai qualche desiderio per i prossimi anni?
R: Certamente, ho molti desideri che vorrei realizzare: tra questi poter in breve tempo ottenere una mia autonomia, esercitare la professione di avvocato, seguendo le orme di mio padre, come lui avrebbe voluto, e soprattutto riuscire a creare un nucleo familiare solido perché “La famiglia è il senso ultimo della vita”.
Questa foto è stata scattata poco prima che ci salutassimo, con la richiesta di Sidiki di fargli compagnia mentre mangiava e di tornare a trovarlo. Durante questa intervista, abbiamo abbattuto tutti le nostre barriere, perché solo nel confronto si può davvero rispettare il genere umano.