PERMETTETECI DI PRESENTARVI
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Edizione 2018-2019
Scritti
"VIAGGIO" di Claudia Diotti
IV CU |
Sono partito perché la mia famiglia ha bisogno di soldi. Sono partita perché sono donna e vogliono sposarmi a un uomo che non voglio. Sono partito perché sono gay, e nel mio Paese rischierei pene fino al rogo. Sono partita perché la mia etnia è perseguitata. Sono partito perché sono perseguitato per la mia religione. Sono partita perché al mio paese c’è la guerra.
Siamo partiti perché sapevamo di non avere speranze. Sono partito dalla Costa d’Avorio, dalla Guinea, dalla Nigeria, dal Senegal, dall’Eritrea, dal Sudan... Ho attraversato tutto solo il Mali, su vecchi pullman scassati o a piedi. Ero solo, avevo con me poche cose, i soldi, il telefono per poter restare in contatto con la mia famiglia, qualche vestito e poco altro. Tanti di noi portano con sé un ricordo di casa. Al confine col Burkina ci sono persone che fanno passare illegalmente chiunque paghi. Ci si trova lì sempre in tanti. Magari persone che sono in Mali anche da un anno o più e lavorano alla giornata per mettere insieme i soldi per pagare i trafficanti. Abbiamo passato il confine col Burkina Faso, di notte e abbiamo attraversato tutto lo stato guidati da questi uomini, poi atteso fuori dall’ultima città, tutti insieme, per poter varcare il confine col Niger. Il viaggio non è comodo. Alcuni tratti a piedi, altri su pullman o macchine vecchissime ma in fondo tanti di noi a casa hanno vissuto di peggio. In Niger siamo arrivati ad Agades. La capitale dei traffici di esseri umani. Lì ci hanno preso in consegna altri trafficanti. Tutti sappiamo che è illegale. Tutti sappiamo che è pericoloso Tutti sappiamo che le scomodità e la paura della prima parte del viaggio saranno nulla rispetto a quello che dobbiamo ancora affrontare. Tutti sappiamo che il vero viaggio, se così si può chiamare inizia lì. Abbiamo paura ma non abbiamo alternative. Così, nel soffocante caldo nigerino, una mattina ci hanno presi, ci hanno stipati su un pick-up, un 4x4 in venti, trenta, non so quanti. Non si respirava. Non ci si poteva muovere. Eravamo uomini e donne, bambini e ragazzi. Una massa umana schiacciata in uno spazio infimo. Avevamo davanti tutto il deserto da attraversare in queste condizioni. Mi sono attaccato come potevo, per non cadere. Sapevo che la mia vita era a rischio. Sapevo che potevo non arrivare a vedere il mare. La macchina ha iniziato ad andare, veloce, veloce, chi controlla in mezzo al Sahara? In mezzo a un mare di sabbia rovente che entra negli occhi, nel naso in bocca, che sembra essere ovunque? Ci ripariamo come possiamo e attendiamo. Sappiamo che chi cade non può risalire. Sappiamo che in tanti sono caduti. A volte li vediamo. I cadaveri di chi prima di noi ha tentato quel viaggio e ora diviene lentamente parte del deserto. Abbandonati al lato della pista. Non si vede altro che sabbia dorata, non si prova altro che caldo soffocante, sete, fame e paura. C’è chi sta male. Non ci fermiamo. Quelli continuano imperterriti a guidare. Solo la sera si fermano. Possiamo bere e mangiare qualcosina. E all’improvviso il sole cala. Nessuno ci aveva detto che il deserto è gelido. Nessuno ci aveva detto che il calore che di giorno ci uccideva diventa rapidamente gelo che entra nelle ossa, impedisce di dormire, un gelo che uccide quanto il caldo. La mattina si riparte. Un’altra giornata sulla macchina uguale alla prima ma siamo più stanchi, più distrutti. Un’altra notte uguale. Un altro giorno di viaggio. Un’altra notte. Un altro giorno ma non si fermano la sera. Vanno un po’ avanti, superiamo il confine. Siamo in Libia. Libia. È un nome contrastante. La Libia è quella terra promessa in cui nulla si paga. In cui si potrebbe guadagnare e portare a casa qualcosa per le famiglie che aspettano ma la Libia, lo sappiamo, per noi clandestini significa orrore. Ci stipano in una baracca. Possiamo bere e mangiare qualcosa ma non resta molto. Siamo distrutti, semi disidratati. I bambini piangono. Di notte arriva la polizia. Alcuni si nascondo ma molti vengono presi. Osservo impotente come la gente viene violentata e portata via, verso l’ignoto. Ho ritrovato in Italia alcuni di loro e mi hanno narrato delle carceri libiche: torture, botte, spazi minuscoli, un pezzo di pane e un sorso d’acqua ogni giorno, se andava bene. Per la colpa di voler emigrare. Molti là muoiono avendo come unica colpa quella di voler vivere. Chi riesce a evadere giunge ai luoghi dove i trafficanti arabi li fanno imbarcare. Altre volte sono gli stessi secondini libici che, dopo aver estorto loro tutto, fino all’ultimo dinaro li fanno partire. È così che loro sono arrivati. Chi invece non è stato preso dalla polizia ha continuato il suo viaggio. Ma non ci è andata meglio. In fondo in Libia stato e criminali si equivalgono ed essere clandestini, per giunta neri, pare essere il reato più orribile che si possa commettere. Ci hanno chiusi in un posto angusto, minuscolo, sentivamo, vicino a noi, proprio di fianco le urla di chi veniva torturato, da quelle stesse persone che ci avevano condotto lì, col terrore che di essere i prossimi. Poi ci hanno spostato. Altri centri illegali. Altre botte, altra fame, altra sete, altre urla, altre torture, altri stupri. La musica là sono i suoni dei fucili. E i neri non piacciono. È più facile essere ucciso per strada se sei nero. Dovevamo arrivare a Tripoli o a qualche altra città sulla costa. Dovevamo trovare i soldi per pagare chi ci avrebbe fatto imbarcare. Piccoli lavori, illegali, spesso per gli stessi uomini che ci tengono rinchiusi, che uccidono, ci stuprano. Finché non è arrivata la notte in cui mi hanno chiamato per farmi prendere il mare. Avevo dato i soldi, tutto quello che io e la mia famiglia potevamo dare. Tutti sanno delle partenze illegali. Tutti le vedono ma nessuno ci fa caso. Gonfiamo un gommone. Io mi siedo sul bordo, con gli altri uomini. Le donne e i bambini sono in mezzo. Siamo almeno cento, forse di più, su un canotto gonfiato ad aria, che si muove grazie a un piccolo motore antidiluviano. Affidano la guida a un paio di ragazzi, uguali a me. Non cambia nulla da me a loro. Parlano un po’ di dialetti e l’inglese, forse sono nigeriani. Io vengo da un paese che fu colonia francese, non li capisco. Qualcuno che parla un dialetto in comune con loro traduce in francese per noi. Ma in fondo non c’è molto da dire. Prendiamo il mare. Siamo una piuma minuscola, un carico di speranza e disperazione umana che galleggia alla deriva senza che nessuno ci veda o ci senta. Finisce il carburante, moriremo. Galleggiamo perduti, senza poter far nulla per fermare ciò che sappiamo sta per succedere. Speranza. Una barca. Una nave! Fa che sia europea, fa che sia europea, Dio mio se esisti fa che sia europea, fa che non ci riportino indietro… sì è una nave europea. Ci fanno salire. Non ci credo. Molti di noi piangono, pregano ringraziano. Anche chi ci ha salvato sorride ed è commosso. Non riesco a credere del tutto di essere salvo. Sbarchiamo. Distrutti, affamati provati, con segni del nostro viaggio nel corpo e nell’anima ma vivi. Pronti a iniziare una nuova vita in un paese dell’Occidente, un paese dove so, potrò avere una vita buona. “Molti di noi hanno alle spalle un viaggio avventuroso e pieno di insidie. Ma quello che conta è se dopo il viaggio c’è un incontro. Se quando arrivi trovi qualcuno che ha uno sguardo d’amore su di te tutto cambia” Mahmoud, profugo eritreo. Dopo il viaggio c’è l’incontro. Per i migranti è l’incontro con una lingua, una cultura, una società diverse da quella di origine. Un’esperienza a volte traumatica a volte feconda, sempre impegnativa. E per tanti italiani, misurarsi col “problema dell’immigrazione” ha significato fare i conti con una presenza nuova, che porta con sé problemi, sacrifici, sorprese, opportunità e ricchezze. Una presenza che sfida ciascuno ad andare a fondo della propria identità personale e collettiva, a riscoprire le ragioni che tengono in piedi l’esistenza, a chiedersi cosa alimenta la speranza di una vita migliore, a cui tutti aspiriamo. |